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LA MAGIA DELLE VILLE VENETE


Alcuni anni fa, ad un amico venuto da Viterbo, mostravo, con fierezza, le bellezze, naturali ed artistiche, delle nostre contrade. Egli esprimeva, ad ogni novità, sincera meraviglia, finché mi chiese la ragione della presenza di così numerose e magnifiche ville nel nostro territorio. Io risposi, lì per lì, con pronta sicurezza, che esse erano la felice testimonianza del tempo in cui i nobili veneziani cominciarono ad interessarsi direttamente dei loro possedimenti di terraferma.
Il mio amico fu pago della risposta, io no.
Mi rendevo conto che la diffusione delle ville doveva essere più complessa, vista la distribuzione nel tempo e considerata la varietà degli stili delle costruzioni.
In effetti, il fenomeno, oltre ad essere diffuso, in questo modo straordinario, solamente nel Veneto, presenta un'omogeneità di sensibilità ed una durata non facilmente comprensibili, se non ci si addentra negli usi, nella mentalità e nelle caratteristiche di un ambiente particolarissimo che fu quello della Serenissima, chiamata, anche, la Dominante.
A questo proposito, vorrei ricordare un episodio significativo.
Si dice che un geografo, che aveva presentato - siamo nel '600- un mappamondo al Doge, si sentì chiedere: "Dov'è la Dominante?" Il geografo gli mostrò un puntino nell'Alto Adriatico. Il Doge, irritato, disse: "O strensé el mondo, o slarghé a Dominante!" (O rimpicciolite il mondo, o ingrandite Venezia!).
Questo per dire quanto grande fosse la fierezza dei Veneziani, nell'affermare la propria capacità e la propria intraprendenza di mercanti.
Ma la storia dell'amore per la campagna dei Nobili veneziani sembra assumere connotazioni diverse con il passare del tempo.
Qualcuno afferma che il pioniere della residenza di campagna sia stato il Petrarca, che preferì abitare in una sua dignitosa casa, ma non certo villa, ad Arquà, sui Colli Euganei, piuttosto che vivere in mezzo alla folla, come egli afferma in modo pittoresco: "...a me ogni stagion dell'anno non offre che popolo stipato, polvere, fango, strepito, immondizia. Invece la campagna è sempre amabile, sempre piena di attrattive per gli animi nobilmente disposti."
Il gran merito del Petrarca fu quello di riscoprire la dignità e la bellezza della campagna, precedentemente abitata solo da contadini.
Ma il suo è l'amore dell'uomo di studio, che mal sopporta il rumore e le presenze inopportune: la quiete concilia la meditazione e la concentrazione.
Ricordo di essere stato, la prima volta, nella sua casa, molto tempo fa, il pomeriggio di una dolce e serena domenica di aprile. Percorrevo, con curiosità e con una certa reverente soggezione, le stanze in cui aveva trascorso diversi anni un poeta così importante. Ad un certo punto giunsi nella sala centrale, il cui poggiolo si apriva a sud-ovest. Entrava una calda e trepida luce che vibrava sui pochi arredi; al centro, un tavolo reggeva una teca contenente alcune edizioni antiche del Canzoniere. Una era aperta sul celebre sonetto CCCX:
"Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena, e i fiori et l'erbe, sua dolce famiglia..."
Mi sembrò quasi che qualcuno mi avesse aspettato!

Sulla scia di Petrarca, altri umanisti, durante il '400 ed i primi anni del '500, edificarono delle ville nelle campagne venete. Erano ville in cui ci si trovava tra amici eruditi, per trascorrere dei giorni in serenità, parlando e discutendo di lettere, di matematica e, soprattutto, di filosofia, sull'esempio degli antichi romani, specie di Cicerone.
Ma anche i nobili arricchiti con i commerci cominciarono a costruire le case di campagna nella terraferma veneta, specialmente dopo la crisi susseguente alla scoperta dell'America ed al conseguente spostamento dei traffici dal Mediterraneo all'Atlantico. Quasi per equilibrare i minori introiti, ma pur sempre consistenti, dei traffici con il Levante, la Serenissima aveva intrapreso una politica di conquista della terraferma veneta, iniziata, comunque, ancora alla fine del '300 (Treviso si diede alla Repubblica di S. Marco definitivamente nel 1388), con lo scopo di proteggere i cospicui commerci con i paesi nordici.
Viene da chiedersi il motivo del desiderio degli aristocratici veneziani a risiedere, almeno per un certo periodo dell'anno, in terraferma.
Qualcuno, sagacemente, afferma che i mercanti, costretti alla vita di mare, non vedessero l'ora di trovarsi sulla terraferma, che non poteva subire né beccheggio né rollio. Altri ancora affermano che tali ricchi signori, aspirassero a periodi di quiete dopo tanto travaglio sui libri contabili.
Ma quali architetture avranno esportato in terraferma, se non quelle a cui erano abituati?
In effetti, le antiche case veneziane constavano di una facciata aperta da una loggia al piano nobile, da cui si poteva ricevere luce, da poche aperture nelle altre pareti, da un ingresso dalla parte del canale a cui si affacciava la casa, per accogliere le mercanzie per via d'acqua, e da un altro sulla calle, dalla parte opposta.
A ben vedere sono queste le caratteristiche costruttive delle ville venete: i nobili veneziani amarono trasferirsi in campagna, senza lasciare, però, le care consuetudini architettoniche della città.
Costituivano parte integrante della villa anche il giardino, tenuto all'italiana, cioè con vialetti, limitati da siepette di bosso, e con aiole i cui fiori variavano secondo le stagioni, mentre, nel retro, verso la campagna, trovava luogo il brolo, terreno tenuto a frutteto ed a vigneto. Ma gli alberi da frutta dovevano essere i più vari, per fornire prodotti scaglionati nel tempo estivo-autunnale, e l'uva doveva essere quella da tavola, mentre, sposate ai gelsi che limitavano i campi, venivano coltivate le viti per la produzione del vino.
Dopo, quindi, un primo periodo in cui le ville furono pensate come luogo di meditazione, le residenze di campagna svolsero il ruolo di residenza signorile durante il periodo estivo, sempre bella e sontuosa, ma anche centro delle attività agricole.
Molte splendide ville del Palladio, nella seconda metà del '500, presentano il corpo centrale, residenza del signore, al centro di due ali rustiche, chiamate alla veneta "barchesse", che servivano da deposito, da granaio, da cantina, da rimessa. Anche psicologicamente il signore era al centro dell'attività e della produttività agricola.
Dopo il Palladio le ville si moltiplicarono, raggiungendo la massima diffusione nel '700.
I giardini divennero più complicati, alla ricerca di motivi che potessero suscitare stupore negli ospiti: così si ebbero labirinti, torrette, ma anche cedraie, fontane, giochi d'acqua. L'animo mercantile, tuttavia, non poteva dissociare il dilettevole dall'utile, per cui sorsero le peschiere, dalle quali il signore poteva trarre nuove fonti di piacere e di guadagno.
Non sarà sfuggita, ai visitatori delle ville venete, la presenza, all'interno dei parchi rispettivi, di una collinetta artificiale, sulla cui sommità si nota una sorta di cupola metallica, ricoperta, dove ancora sopravvive, da vite americana, o da altri simili rampicanti. Era il belvedere, dove le nobili compagnie prendevano il fresco, sorseggiando bibite e discorrendo degli ultimi avvenimenti.
Ma tali collinette sormontavano, quasi sempre, un ambiente appositamente ricavato, per conservare il ghiaccio: si trattava, insomma, della ghiacciaia, utilizzata per tenere, al freddo, bibite ed altri alimenti.
Durante l'inverno, infatti, dopo una nevicata, si raccoglieva tutta la neve disponibile e la si poneva all'interno di questa "grotta", dove si conservava per gran parte dell'estate. Tra l'altro, dalle montagne del Cadore, d'estate, con le zattere, si trasportavano anche pezzi di ghiaccio per i gelati dei Veneziani. Quando si dice la forza della gola!
Verso la seconda metà del '700, quasi presaghi della prossima fine, i nobili edificarono le ville in modo sempre più vistoso e fastoso: basti pensare alle due mastodontiche ville di Strà e di Passariano: la prima costruita dalla famiglia Pisani, che si dice avesse nella terraferma già una cinquantina di ville, la seconda abitata dall'ultimo doge, quel Lodovico Manin che chiuse, così poco gloriosamente, più di mille anni di storia veneziana.
Sono ville che non sfigurano di fronte alle più belle residenze regali d'Europa.
Ma, se incutono timore per la vastità e la complessità delle architetture, sottolineano anche l'insipienza di una classe politica che, incapace di rinnovarsi, si spense lentamente nel divertimento, nelle danze, nel lusso sfrenato, nella passione del gioco d'azzardo.
Così, quelle antiche costruzioni equilibrate e serene del '400, edificate dai proprietari per godere della serenità della natura, della compagnia di fidati amici colti, della salubrità dell'ambiente circostante, si trasformarono nel drammatico canto del cigno di una civiltà ancora splendida, sotto certi aspetti, ma interiormente infiacchita e moralmente vuota.

Claudio Favaretto